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Cortine di Ferro

Poesia/ E’ il mondo l’umanità/ La propria vita/ (Ungaretti, COMMIATO; da L’Allegria, 1916)

mercoledì, novembre 22, 2006

Mark Strand_The Story of Our Lives


Philip Pearlstein (born 1924)
Watercolor on paper, 1983
National Portrait Gallery, Smithsonian Institution; gift of Mark and Julia Strand


Ciao Gilda,

voglio innanzitutto scusarmi con te per aver così a lungo esitato nel risponderti, non foss’altro che per tornare a ringraziarti delle parole di simpatia che hai avuto per me e, ancor più dei “rapaci” e “freschi” versi di Strand, autore di cui avevo solo sentito parlare tra le pagine di una rivista di settore, ma al quale non mi ero mai avvicinato prima d’ora.

In tutta onestà, ho voluto altresì prendere tempo perché i versi di Strand mi hanno realmente entusiasmato e meritavano un’attenzione e una cura del tutto peculiari: dovevo in qualche modo “metabolizzarli”!

Al fine di comprendere le ragioni del mio entusiasmo, è d’uopo dapprincipio, premettere che ho sempre nutrito un lieve pregiudizio nei confronti di quella poesia che “protende” il verso, lo estende, fino a lambire i confini dell’enunciato prosastico.

Ho sempre avuto come l’impressione, (che credo fondamentale in poesia, in quanto alla base di quella preziosa e al tempo stesso stra-ordinaria empatia autore-lettore) che nell’annacquare il verso con troppe parole, lo si snaturi della sua veste lirica facendone uno strumento “descrittivo” in cui ogni singola parola cessa di “e-vocare” suggestioni nella sua polivalente essenzialità (la parola come quintessenza delle emozioni di un autore e perciò centellinata) e si “de-scrive”, si “toglie” cioè dallo scritto nella sua unicità, ACQUISTANDO un senso (dalla sintesi concettuale del testo) piuttosto che CONFERIRLO.

[…]

Quando trovo

In questo mio silenzio

Una parola

Scavata è nella mia vita

Come un abisso.

(Ungaretti, COMMIATO; da L’Allegria, 1916)

Ho già avuto modo di confessarti la mia debolezza per il metro ermetico, e credo che la citazione di poc’anzi te ne renda piena conferma.

Non credo, però, si tratti di una scelta definitiva; e forse il bello della poesia è proprio nel suo non essere mai “definitiva”, qualunque valenza semantica vesta detto aggettivo.

Ma in questo particolare momento della mia vita, la più grande emozione ho solitamente tratto, dall’incedere sincopato dei versi, dal loro quasi esitare nell’ “esporsi”, timidi del loro carico di responsabilità concettuale, fino al limite estremo della paratassi.

[…]

Poesia

E’ il mondo l’umanità

La propria vita

(Ungaretti, op. cit.)

E forse è per questo che i poeti sono così avari di parole!

Strand, in tutto questo si inscrive con la pre-potenza della propria capacità di rapire per “suggestioni di quotidianità”, per “visioni” della stessa; mi ha trascinato –disarmandomi- all’interno dei pur normalissimi giorni del suo leggersi come una storia, osservandosi da un angolo prospettico solo in apparenza remissivo; capace di conferire stra-ordinarietà persino alla banalità dei giorni che si susseguono, seppur nel loro logorarci impercettibile, dacché ci ammantiamo nell’ abitudine.

Ciò che in Strand mi ha sorpreso, nonostante la sua metrica più distensiva, è la capacità di tenere comunque “raccolto” il verso, come un bouquet in cui ogni singolo fiore è -di per sé- suggestivo e la cui mancanza pur farebbe venir meno l’estetica del mazzo nella sua intierezza.

Ciò che mi ha estasiato è, appunto, quell’abilità, così invidiabilmente genuina e semplice (!!), di coniugare garbatamente e con stile, la “cura” ermetica della parola con l’ “ariosità” e il “più ampio respiro” metrico del testo poetico.

In Strand la parola non cessa di essere “limpida meraviglia di un delirante fermento” , continua anzi ad essere “scavata nell’abisso” della sua quotidianità; in Strand -la poesia stessa- non cessa di essere “il mondo l’umanità / la propria vita” financo straziata dal peso di tanta consapevole responsabilità.

Ancora Strand.

Questa volta dalla superficie dei suoi versi mi lascio cadere nel cuore stesso delle sue “intenzioni”, delle sue “tensioni” poetiche.

Questa volta è la percezione del prossimo a straniarmi, quel modo delicato e terribile di intenderla come un’assenza a latere, un’ ossimorica immanenza dell’ assente, dove è impossibile cercarsi e ci si trova solo per epifanie, apparizioni e rivelazioni, come fantasmi o soggetti sacri.

L’altro è già percettibile nelle “alterazioni” del reale (“i tappeti si fanno più scuri ogni volta / che le nostre ombre vi trascorrono”); ma l’altro è sempre e solo percezione, mero sentore, di cui a volte ci si accorge per sovrapposizione di sensi, “sinestesie” appunto. (“il libro[…]non spiega mai, rivela.”).

L’altro nella storia, nel libro, resta innominato – o, forse, innominabile – ed è questo che di lui non si sopporta: la distanza; il suo “essere” più nell’idea, nell’immaginazione, shakespeareianamente “fatto della stessa sostanza dei sogni”; il suo porsi nel reale come un “fluire inverso della vita”.

Strand conosce la prepotenza di un desiderio, Strand conosce anche la dissacrante e disillusa “parsimonia” che prende un attimo dopo aver corrotto l’attesa di un bisogno: quasi a non “volere” di più, quasi a non desiderare altro.

E allora gli uomini e le donne di Strand, se ne stanno sul crinale dei desideri, pieni dei loro “ideali”, stracolmi di “immagini”, (quante volte si susseguono nel testo questi… sostantivi, appunto: proprio perché in essi è la sostanza stessa della “visione del mondo” dell’autore canadese!); gli uomini e le donne di Strand SONO i loro stessi desideri, e nel compierli hanno paura di compiersi. (“Ti sei innamorata di lui / perché sapevi non sarebbe mai venuto a trovarti / non avrebbe mai saputo che attendevi”.)

Del resto è già tutto in quel “leggersi”, quell’alienarsi facendosi altro da sé; è già tutto in quell’oggettivarsi in qualcosa d’altro, (un libro, una storia, una stanza, un divano…) il bisogno, dignitosamente misurato e sussurrato, di popolare il silenzio, di superare l’abbandono. (“mi sono commosso per la mia solitudine nel leggerlo;[…] leggevo e mi commuovevo al desiderio di offrirmi alla casa del tuo sonno”, al luogo –cioè- in cui il fluire della vita si inverte e la quotidianità si fa onirica, ideale, immaginaria; un luogo verso il quale Strand non si propone come novello Orfeo teso a “riportare indietro” la propria Euridice, ma anzi un luogo nel quale poter vivere bene, dove “invertire il flusso della vita” possa significare al contempo “invertirne la polarità”, scansare il “negativo”.)

E ancora Ungaretti, allora.

Questa volta prosatore anch’egli; da Altre poesie ritrovate:

“Non sai – e chi saprà? – quest’infelicità di sentirsi abbandonato.

Abbandonato anche dalle cose; anche dalla terra, anche dal mistero delle stagioni.

Non aver prossimo; si potrebbe popolare il mondo di confidenti immaginari; […]

Mi sono creato un paese di cristallo, perché fatalmente dovessi accorgermi, da qualsiasi punto, che non era naturale.

E non si può vivere a lungo di quest’ allucinazioni ideali.”

Quale chiosa migliore? Credo che riassuma financo più di quanto dovrebbe!

In Strand non c’è molta speranza, ma la traduzione italiana (straordinariamente più poliedrica) credo che in questo offra un valido soccorso:

Il giorno continua.

Studiamo quel che ci ricordiamo.

Guardiamo nello specchio oltre la stanza.

Non sopportiamo d’essere soli.

Il libro continua.

Mi piace leggere questi versi al congiuntivo (memore della tempistica "esortativa" latina); mi piace pensare che siano carichi di “esortazioni a fare” pur lontanissime -è ovvio- dagli eccessi di ogni imperativo, se la poesia è anche consiglio!

Credo di non tradire con questo, neppure il pensiero strandiano : il rifugio nei ricordi come luogo dell’”ideale”; la pervasività di uno sguardo oltremodo immaginifica, capace di ridisegnare il senso delle cose in cui si oggettiva il quotidiano (penso a Lewis-Carrol); la pervicacia di popolare, le “proprie stanze” e ciascun “oltre” in cui la nostra anima crea avamposti, anche solo di “corpose”, “solide” assenze perché davvero non si deve sopportare di essere soli, ma può essere magnifico quando lo si sceglie, quando diventa il luogo stesso della propria creatività.

Strand, poeta del quotidiano delle impellenze ermetiche.

Non è una conclusione, è ovvio, non può esserlo se questa analisi è solo il principiare di ciò che ancora amerò condividere e scoprire in Strand.

Ma di certo è la scoperta o forse solo una nuova consapevolezza, che la “cura” della parola, di ogni singola parola, e la più ampia distensione del testo hanno fortunati momenti di conciliabilità in cui vale proprio la pena di perdersi.

Con immensa stima,

Alessandro



Poems by
Mark Strand

2 Comments:

Blogger qotsa said...

caro @lex,
sono lieto e onorato di essere il primo a lasciare un commento positivo al tuo neonato blog e spero di essere il primo di una lunga serie....

un saluto by N@poletto

12:27 AM  
Blogger @lex said...

@qotsa
il mio ringraziamento ti giunga in guisa di raffinato omaggio, dacchè il "Vate" che ci perduce lungo i crinali di questo "al di là" semantico, assume forme e significanti (sic!) talvolta inattesi, talaltra disattesi!
In un momento di abbandono spirituale, o forse per la nausea della censura ai suoi "Fiori del Male" Baudelaire compone tre poesie dedicate all'amato felino domestico.


1.

Gli amatori ferventi e i saggi luminari
amano, a grado a grado che l'età loro avanza,
i gatti forti e morbidi, orgoglio della stanza,
com'essi freddolosi, e pigri, e sedentari.

Amanti di lussurie, di calma e di saggezza,
ricercano il silenzio, l'ombra e i suoi misteri;
l'Ade ne avrebbe fatto dei funebri corrieri,
se potessero flettere l'indomita fierezza.

Meditabondi, assumono le pose statuarie
delle sfingi accosciate in fondo a solitarie
lande, come in un sogno che fine mai non abbia;

sprizzano dalle reni magnetiche scintille:
e grani d'oro, simili a finissima sabbia,
vagamente gli stellano le mistiche pupille.


2.

Vieni, mio bel gatto, sul mio cuore amoroso;
Trattieni le unghie della tua zampa,
E lasciami sprofondare nei tuoi occhi belli,
Misti di metallo e d'agata.

Quando le mie dita accarezzano a piacimento
La tua testa ed il tuo dorso elastico,
E la mia mano s'inebria del piacere
Di toccare il tuo corpo elettrico,

Vedo la mia donna. Il suo sguardo,
Come il tuo, amabile animale,
Profondo e freddo, colpisce e taglia come un dardo;

E dai piedi alla testa,
Attorno al suo corpo bruno,
Fluttua un profumo sottile, un pericoloso effluvio.


3.

Nel mio cranio passeggia e si dimena
(signore d'un palazzo senza porte)
un gatto fiero, flessuoso, forte;
quando miagola s'ode lieve appena,
tanto il suo timbro è tenero e discreto;
ma, sia che s'alzi o che s'avvalli l'onda
musicale, la nota è sempre fonda,
ricca di un incantevole segreto.

Questa voce m'avvolge con sue spire
tremule, filtra in ogni mia latebra;
come una strofa armoniosa ed ebra
m'esalta, come un magico elisire.

Ogni più cruda pena ella consola,
chiude in sé tutte l'estasi, e se deve
dirmi una frase, che sia lunga o breve,
dolce si esprime senza dir parola.

Archetto non esiste che più morda
sul mio cuore, sensibile lento,
e faccia regalmente con acuto
trillo vibrarne la più tesa corda,
della tua voce, o musico animale,
gatto misterioso, serafino,
in cui tutto, incantesimo divino,
è così lieve, dolce, angelicale.

II

Tale un profumo emana dal suo manto
soffice a strisce alterne, fulva-nera,
che m'ha stregato, avendolo una sera
carezzato una volta, una soltanto.
Egli è il folletto tutelare mio,
l'ispiratore; nel suo chiuso impero
è despota, sì ch'io lo credo invero
un essere fatato, un mago, un dio.

Quando il mio sguardo verso questo caro
gatto, più caro d'una dolce amante,
si rivolge attirato, nell'istante
che a scrutare in me stesso mi preparo,

nell'ombra, stupefatto, ecco discerne
l'iridi sue di fosforo verdastro,
viventi opali dai riflessi d'astro,
vigili e fisse come due lanterne.

"Sognando prendono nobili atteggiamenti, da grandi sfingi sdraiate in fondo alle solitudini, che sembrano addormentarsi in un sogno senza fine. Le loro reni feconde sono piene di scintille magiche e dei grani d'oro, come una sabbia fine, stellano vagamente le loro pupille mistiche".
Non per nulla Baudelaire era un fervente ammiratore di Edgar Allan Poe!

Si racconta che lo stesso Eduardo De Filippo amasse scrivere con la gatta seduta sulla pagina sinistra del quaderno, per questo, forse ha voluto lasciarci questo gioiello di poesia:

'A GATTA D''O PALAZZO

Trase p''a porta,
pè nu fenestiello,
pè na fenesta, si t' 'a scuorde aperta,
quanno meno t' 'aspiette.

Pè copp' 'e titte,
da na loggia a n'ata,
se ruciulèa pè dint' 'a cemmenera.
E manco te n'adduone
quann'è trasuta:
Pè copp' 'o cornicione
plòffete!, int' 'o balcone,
e fa colazione
dint' 'a cucina toia.

È 'a gatta d' 'o palazzo.
Padrone nun ne tene.
Nunn' è c ' 'a vonno male,
ma essa 'o ssape
che manc' 'a vonno bene.
Te guarda cu dduie uocchie speretate:
lèsa.
N'ha avute scarpe appresso e ssecutate.
È mariola!
Ma 'a povera bestiella, c'adda fa?
È maríola pecché vò mangià.
È mariola...
Chest' 'o ddíce a' ggente;
ma i' nun ce credo, pecché, tiene mente:
tu lasse int' 'a cucina, che ssaccio...
nu saciccio.

Làsselo arravugliato
dint' a na bella carta 'e mille lire.
Tuorne 'a matina:
'a mille lire 'a truove, che te crire?
Nzevata. Ma sta llà.


Benvenuto!!

7:42 AM  

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